Considerato un parente stretto del carciofo, il cardo supera facilmente gli inverni più rigidi e assicura il minimo spreco: se ne possono mangiare, infatti, le coste, ma anche le lamine delle foglie, seppure irte di spine. Si tende a consumare il cardo dopo averlo sottoposto a sbianchimento, procedimento che lo rende più tenero e delicato di sapore.
Se le proprietà nutrizionali, i tipici fiori – edibili, finché giovani e teneri, al pari di quelli del carciofo – e i semi dalle proprietà cicatrizzanti ne hanno decretato la coltivazione sin dai tempi antichi, il portamento della pianta, il fogliame argenteo e quella sua capacità di resistere alle intemperie hanno invece alimentato l’immaginazione degli artisti, tanto che non è così inusuale imbattersi in un Cynara cardunculus ritratto su tela.
Famoso per le sue teste composte, Giuseppe Arcimboldo (1526-1593) ha sempre mostrato una certa predilezione per il cardo, sebbene il trompe d’œil renda un po’ difficile individuarlo.
Nei bodegón di Juan Sánchez Cotán (1560-1627), il cardo trova spazio in quegli angoli di cucina che caratterizzano queste tipiche nature morte iberiche. In queste composizioni essenziali, il cardo sembra abbandonato lì quasi per caso, eppure con la sua forma inconfondibile contribuisce a movimentare la scena.
Cardi più selvatici fanno invece da cornice pittorica alle nature morte di sottobosco di Otto Marseus van Schrieck (1619 o 1620-1678). Rinomato al punto da essere la prima persona che Cosimo de’ Medici volle incontrare nella sua visita ad Amsterdam del 1667, oggi è un artista ingiustamente dimenticato, seppure sia stato l’inventore di un nuovo e peculiare genere pittorico, il sottobosco. Sua moglie disse che passava così tanto tempo a maneggiare i serpenti che questi avrebbero finito per posare per lui. Tra le ombre di questo sottobosco così minutamente riprodotto, spiccano le sghembe sagome dei cardi, non per niente spesso associate proprio a quei serpenti che van Schrieck amava così tanto.
Allo stesso modo, il cardo fa capolino in qualche dipinto di Elias van der Broeck (1657-1708), il pittore dei fiori appartenente, come van Schrieck, alla cosiddetta età dell’oro olandese.
Anche nelle composizioni dei pittori orientali, dove è proprio la natura a dominare l’uomo e non viceversa, spicca la bellezza spinosa del cardo: è il caso di Katsushika Hokusai (1760-1849).
Nel 1858, il pittore impressionista Édouard Manet (1832-1883) dedicava l’intera scena al cardo selvatico. Lo vedremo poi ricomparire nelle carte da parati e nelle decorazioni così tipiche dell’Art Nouveau e tra le ispirazioni di Gustav Klimt e Paul Klee.
Dal dipinto di Klee del 1919 giungiamo al 1975, quando Moli, in un disegno conservato all’Accademia delle Belle Arti Tadini di Lovere (BG), rappresenta una natura morta dove spiccano i fiori di cardo. Anche il calabrese Mimmo Sancineto ama rappresentare il cardo, come allegoria del rinascimento (la pianta, infatti, torna a vivere anche se viene tagliata) e della cacciata di Adamo ed Eva («Spine e cardi produrrà per te la terra» Genesi, 3:18-20).
Infine, nel 2020, al Casino del Principe (BN), è stato esposta una tela cinquecentesca ritrovata ad Avellino da un antiquario. Si pensa che rappresenti la marchesa Maria di Cardona e che sia opera nientemeno che di Agnolo Bronzino. Ma perché proprio la marchesa? Perché la fanciulla in abiti rinascimentali stringe nel palmo tre cardi.